Ospitare lo straniero, visitare i carcerati

La quarta opera di misericordia, nella sua versione comunemente accolta dalla Chiesa, recita “alloggiare i pellegrini”. Ma la base biblica di quest’opera, che si trova in Mt 25,35, pare ben diversa: “Ero straniero e mi avete accolto”. Non è chi non veda che le due differenti formulazioni non sono immediatamente sovrapponibili. Una cosa è infatti accogliere, per una notte, un pellegrino che devotamente sta raggiungendo la meta del suo cammino, ben altra ospitare e farsi carico di uno straniero … Il sentore di tale dissonanza è forse recepito anche dal Catechismo della Chiesa Cattolica che dà, di quest’opera, una formulazione ancora differente: “ospitare i senzatetto” (CCC. N. 2447). L’ accoglienza dello straniero, come testimoniato da questa non piccola divergenza di formulazioni, è infatti questione di non poco conto. Ci colloca immediatamente al crocevia di un duplice orizzonte. Da un lato quello biblico, dall’altro quello sociale e culturale.

L’ attenzione allo straniero è, infatti, una richieste già ben presente nell’ Antico Testamento ed è più volte ripetuta nella Bibbia. Il libro del Deuteronomio, ad esempio, invita il popolo di Dio, in procinto di entrare nella terra promessa, a “non ledere il diritto dello straniero “ (Dt. 24,17) ed a pensarsi non come il proprietario assoluto della terra data da Dio, ma come un custode di essa.

Invita, perciò il contadino a lasciare, per lo straniero, qualche mannello del proprio raccolto di grano, od a non ripassare i rami dell’ulivo e della vite, perché anche l’orfano, la vedova e lo straniero possano nutrirsi (Dt.4,17-22). L’ Antico Testamento giunge fino ad affermare che l’accoglienza dello straniero può rivelarsi, a volte, come uno dei luoghi nei quali Dio si rende presente, per portare a compimento le sue promesse (così, ad es, nell’esperienza di Abramo, in Gn. 18,1-15). Anche Gesù, pur non negando “la differenza e la distanza che la stranierità dell’altro comporta, (ma) sa sempre superare la distanza quando vede lo straniero accogliere la volontà di Dio”. Egli si ferma a dialogare con la Samaritana (Gv. 4,9) o con la donna Cananea (Mt. 15,28 ) – cosa tutt’altro che scontata per i Rabbi del tempo – e giunge fino ad identificare se stesso con uno straniero, un samaritano, quando si tratta di evidenziare l’esigenza di prossimità verso chi è nel bisogno (Lc. 10, 29-37). Perciò i primi cristiani non mancheranno di cogliere la loro stessa identità di credenti leggendosi come “stranieri e pellegrini”. Dal punto di vista sociale e culturale, poi, la quarta opera di misericordia ci pone, come cristiani, nel cuore di una questione nodale per l’Europa e tutto l’occidente. Come ben evidenziato dalla cronaca odierna, l’esigenza di farsi carico dello straniero che preme alle nostre frontiere, diventa ogni giorno più impellente e solleva una delle questioni sociali e politiche più rilevanti del nostro tempo. Sappiamo che non è compito della Chiesa determinare leggi o indirizzi politici, ma certamente la morale sociale cristiana ed ancor più, la forza simbolica e pratica con cui papa Francesco accosta questo tema, ci offrono delle indicazioni che non possiamo ignorare

Anche la sesta opera di misericordia, visitare i carcerati, ci offre un’indicazione molto concreta per vivere la carità cristiana, ma nello stesso tempo ci colloca sul crinale di un’altra importante questione che tocca il nostro tempo. Ci invita, infatti, a riconoscere che, per chi creda, non può esistere solo la giusta applicazione della legge. Essa va accompagnata da un’apertura alla misericordia ed al perdono, così come il giudizio umano, pur condannando l’errore, deve sempre salvaguardare l’errante. Egli va affidato al giudizio ultimo e definitivo di Dio, il solo capace di conoscere pienamente il cuore dell’uomo e di armonizzare giustizia e misericordia.

L’invito a visitare i carcerati è, poi, un perentorio richiamo ad uscire dalla falsa dialettica, ben presente ai nostri giorni, tra giustizialisti e buonisti. La sesta opera invita a procedere tra la Scilla e la Cariddi di questa duplice deriva. Solo l’incontro con la persona e la conoscenza di colui che, a causa della sua storia di male o di debolezza è stato privato della bene della libertà, ci impedisce di ridurre la persona al suo errore e rinchiuderla in esso. Il frequente fenomeno della recidiva, che in Italia raggiunge il livello infausto del 67% di chi ha già scontato una pena detentiva, così come il richiamo dell’articolo 27 della nostra Costituzione, che subordina la legittimità di una pena alla prospettiva della rieducazione del condannato, ci richiama fortemente all’esigenza di non abbandonare ai margini della società nessuno. Neppure il peggior criminale va escluso dalla possibilità di compiere un cammino verso una nuova vita. Ma questo non può che nascere da un incontro, colmo di misericordia e benevolenza, che il cristiano, per primo, è chiamato ad offrire come testimone del Vangelo.

Don Augusto Bonora