Sul futuro della parrocchia nella città

Attualità dei modelli della Chiesa apostolica

L’articolo di A. Join-Lambert, Verso parrocchie ‘liquide’? Nuovi sentieri di un cristianesimo ‘per tutti’, apparso sul numero di marzo della Rivista e rilanciato da una pagina di «Avvenire» del 27 maggio, ha toccato un argomento di grande rilevanza per chi vive il ministero in un contesto urbano ed è alle prese con le problematiche ecclesiali poste in luce da quelle riflessioni. Don Augusto Bonora, sacerdote milanese e parroco ‘di periferia’, provocato dalle tesi di quell’intervento sul futuro della parrocchia, interloquisce con esse, apprezzandone i guadagni, ma proponendo anche dei correttivi alla luce di una ripresa del magistero pastorale degli ultimi tre vescovi milanesi, caratterizzato dal riferimento ai diversi modelli della Chiesa apostolica.
Pubblichiamo volentieri questo suo dialogo-approfondimento con il testo di A. Join-Lambert che anzitutto richiama in modo chiaro la vocazione originaria della rivista: essere uno strumento di formazione dentro la Chiesa italiana, attraverso il dibattito e la riflessione condivisa. Tutti gli articoli pubblicati sono un invito al pensiero, uno stimolo all’approfondimento, all’immersione nella realtà, per leggerla oltre la superficie, in modo libero. In secondo luogo, la riflessione di don Augusto consente di fare passi avanti nella messa a fuoco delle trasformazioni dello strumento che più di ogni altro ha contribuito (e contribuisce ancora) a costruire il volto del cattolicesimo italiano: la parrocchia. La rivista si è dedicata nel corso dei decenni al monitoraggio e allo studio di questi cambiamenti. Vediamo perciò nelle riflessioni di don Augusto l’invito ad allargare il numero delle voci che intendono assumersi il compito di osservare, studiare e raccontare la trasformazione in atto. Il prof. Join-Lambert, teologo pratico, si è mostrato molto interessato al dibattito che si apre, convinto che solo facendo marciare il più possibile unite osservazione e riflessione si possono cogliere veramente le trasformazioni che stanno toccando in modo radicale le forme istituite del cristianesimo nel
mondo occidentale. Le riflessioni di Join-Lambert e di don Bonora ci confermano che è la Chiesa cattolica nel suo insieme a essere impegnata in un forte lavoro di trasformazione della propria presenza tra la gente e dentro la società: le Chiese più giovani lavorano per dare contenuto a parrocchie spesso molto vaste ed estese, animandole con lo strumento che, a seconda dei contesti, assume il nome di ‘comunità ecclesiali di base’ oppure di ‘piccole comunità cristiane’, con lo scopo dichiarato di favorire la costruzione di luoghi di vita cristiana capaci di sostenere meglio la fede di chi ne fa parte e di irradiare con la loro testimonianza lo spazio sociale. Le nostre Chiese con radici più antiche lavorano alla revisione dei loro reticoli parrocchiali, gestiti con sempre maggior fatica a seguito della diminuzione del clero e della pratica cristiana. L’intenzione dichiarata è di evitare che simili operazioni si trasformino in procedure amministrative e burocratiche e abbiano un effetto indotto non voluto: che le Chiese locali alla fine si chiudano su loro stesse, troppo occupate da problemi di
carattere gestionale. Ci si attende ancora molto dalla parrocchia, e da una sua riconfigurazione: restare la più capillare porta d’ingresso alla fede cristiana e all’esperienza ecclesiale; diventare centri di irradiazione e di testimonianza dell’esperienza cristiana, sentinelle capaci di ascoltare le persone e i loro bisogni, luoghi in cui poter nutrire e rafforzare la propria fede. Pur ormai in contesti di minoranza (come il nord Europa) o di forte trasformazione culturale oltre che sociale (come a Milano), la Chiesa non può perdere la sua capacità di restare accanto alla vita quotidiana delle persone, per annunciare da quel luogo il messaggio vivificante del Vangelo. La Chiesa ha bisogno anche oggi, dentro la varietà delle sue figure, di non perdere il volto di Chiesa ‘domestica, popolare’. Lasciamo che sia la riflessione di don Augusto ad accendere le nostre domande.

L’articolo di A. Join-Lambert: una lucida lettura del presente

Già nell’incipit A. Join-Lambert mostra, in modo molto preciso e sintetico, la linea prospettica del suo intervento, segnalandoci, non solo la radice sulla quale la sua riflessione si colloca, ma anche il focus: la città e l’attuale modo di vivere la parrocchia e la Chiesa, in ambiente urbano. Questo approccio non fa prevalere uno sguardo ‘difensivo’, né lascia spazio a logiche di semplice autocommiserazione, ma offre linee di apertura a una logica missionaria che indirizzi verso le periferie esistenziali e geografiche della città e punti a un vero rinnovamento pastorale, secondo lo stimolo del magistero di papa Francesco.
L’analisi del mutamento delle parrocchie, nel quadro della fine della cristianità, è svolta in modo sintetico ma particolarmente lucido. Alcune sottolineature mi paiono apprezzabili: in primo luogo la constatazione che la fine della cristianità è irreversibile e che il futuro dei rapporti tra Chiesa e società, ma anche di alcuni valori di cui la Chiesa è portatrice1, sia una realtà con cui non è più possibile evitare di fare i conti. Ritengo inoltre pertinente l’affermazione (e il discorso andrebbe approfondito) che allo sgretolamento del modello tridentino di parrocchia, in particolare nella città, contribuisce non solo la «progressiva mobilità dei cristiani», ma anche – aggiungerei – l’inevitabile, «moltiplicazione delle parrocchie affidate a un solo sacerdote». Di converso, mi pare corretto il rilievo che coglie nella creazione di «gruppi pastorali» ancora una semplice «variante ecclesiologica del modello precedente». Infine ritengo condivisibile l’affermazione che l’attuale modello di parrocchia trovi, oggi, uno dei suoi limiti più consistenti nell’estenuazione delle figure di operatori pastorali e che il nuovo stile di parrocchia non sia ancora visibile, aprendo all’esigenza di ipotizzare nuovi modelli da sperimentare, poiché solo così la Chiesa potrà rispondere alle sfide che la città ormai pone all’esistenza cristiana e aprirsi nella direzione della missione, come la Chiesa postconciliare da tempo chiede e, in specie, il magistero papale di Francesco ripetutamente sollecita.

Le Citykirchen e la proposta dell’autore

L’autore si volge quindi ad analizzare l’esperienza. E la sua lettura, che sembra riguardare prevalentemente il contesto tedesco e francese, si concentra sulle cosiddette Citykirchen. Un modo di essere Chiesa non appesantito dalle molteplici attività parrocchiali e caratterizzato da un intervento pastorale che permette di «… provocare e curare l’incontro», con uomini e donne lontani dalle parrocchie, offrendo ciò che le parrocchie stesse non danno più. Questi ambienti hanno come elemento aggregativo un aspetto specifico: «una dimensione dell’esistenza, un’ospitalità, una convivialità, o un sostegno» e creano un’aggregazione non immediatamente correlata alla celebrazione dell’Eucaristia od alla formazione catechetica ecc. Di tali esperienze, presenti anche nella città di Milano, non si può non considerare il valore crescente e lo scarso peso che, spesso viene dato loro, ancora oggi, nella pastorale ordinaria della città.
Tuttavia la riflessione, dopo questa iniziale considerazione dell’esperienza, compie una sorta di passaggio (o forse addirittura un salto teorico) che, dal mio punto di vista, è troppo consistente. Trae, infatti, da queste esperienze in atto, materia non solo per invitare a una riconsiderazione del modello parrocchiale, ma addirittura per una nuova definizione della parrocchia stessa, provocatoriamente chiamata «parrocchia liquida».
Pur dichiarando l’irrinunciabilità della presenza della parrocchia come condizione «per annunciare una buona novella per tutti, in tutte le nazioni», l’autore sembra, però, sposare la tesi «dei teologi anglosassoni tra i quali Pete Ward» secondo cui «le parrocchie solide ignorano o trascurano de facto la sete spirituale della maggioranza e le riorganizzazioni attuali delle parrocchie non riescono a coinvolgere persone nuove». Per cui è «urgente una riforma quando la Chiesa locale comincia a somigliare a un club», una trasformazione che ren-
da la Chiesa più capace di rispondere alle domande della gente e dimisurarsi con la sua ricerca.

I guadagni della riflessione di A. Jean-Lambert

Abbiamo già segnalato i guadagni presenti nella riflessione del nostro autore: anzitutto la lucidità e la sinteticità di una lettura del nostro vissuto pastorale attuale, in una prospettiva di futuro; in secondo luogo il non porsi in un atteggiamento difensivo ma di apertura e di giusta sfida alla vita presente. Da qui deriva la chiara consapevolezza che la crisi della parrocchia tridentina e del modello di Chiesa a essa correlato, non può essere risolta mediante una sorta di maquillage, una semplice trasformazione di superficie e un cambiamento che si limiti a una ridefinizione delle strutture organizzative della Chiesa. In terzo luogo – forse l’aspetto più interessante – è la capacità di focalizzare l’attenzione sulla città, se è vero quanto afferma in un suo scritto Giordano Frosini che:

la pastorale della Chiesa è rimasta abbarbicata alle impostazioni della Chiesa rurale e non sembra aver mai preso totalmente sul serio, almeno fino ai nostri giorni, la città in quanto tale. Per Comblin la pastorale urbana non esiste in senso vero e proprio: quanto si fa nelle città non è che la trasposizione di quanto si fa e si è fatto (anche con successo) nelle campagne. La città è stata considerata come un aggregato di paesi, ciascuno con la propria parrocchia, non come una realtà unica e organica. Le conseguenze sono sotto gli occhi
di tutti. Si corre ai ripari con la costituzione di organismi di collegamento che però hanno vita difficile e raramente raggiungono effetti apprezzabili. È l’impianto di fondo che andrebbe riconsiderato.

La realtà della città con la sua City, le sue periferie, i suoi non luoghi, i suoi quartieri multietnici, le sue povertà esasperate, le sue case fatiscenti e i suoi loft, i frammenti di relazione, la mobilità e la confusione… si presenta infatti, oggi, come una sfida totale per la pastorale ecclesiale, che chiede un ripensamento, una rilettura dell’impianto. Se è vero, poi, quanto affermano le indagini sociologiche che il processo prossimo venturo della popolazione mondiale sarà un percorso di nuovo e radicale inurbamento, non è chi non veda che un approccio differente alla pastorale cittadina è una delle questioni fondamentali per la Chiesa nei prossimi decenni.
Il guadagno del nostro autore mi pare, infine, anche di metodo. Egli sembra riconoscere quanto affermato dal Cardinale Martini anni fa in una sua lettera pastorale, cioè

che lo Spirito c’è, anche oggi, come ai tempi di Gesù e degli Apostoli: c’è e sta operando, arriva prima di noi, lavora più di noi e meglio di noi; a noi non tocca né seminarlo, né svegliarlo ma anzitutto riconoscerlo, accoglierlo, assecondarlo, fargli strada, andargli dietro.

Infatti, per attuare questo cambiamento di prospettiva pastorale bisogna volgersi a quei ‘luoghi’ dove lo Spirito parla ed è presente. Che il nostro autore riconosce anzitutto nel magistero di papa Francesco sulla parrocchia, che afferma: «dobbiamo riconoscere che l’appello alla revisione e al rinnovamento delle parrocchie non ha ancora dato sufficienti frutti …» e nell’esperienza, quella delle Citykirchen appunto. A partire da questi guadagni e da questo metodo di lettura, intendo anch’io procedere verso una riflessione che insieme conferma e parzialmente contesta le conclusioni del nostro autore.

Un filo rosso nel magistero dei vescovi milanesi

La forte provocazione missionaria ben visibile nel magistero di papa Francesco, interprete, anche in questo, delle linee più feconde del post concilio e da sempre attento al tema della città, in particolare a
partire dal documento di Aparecida, non può essere, però, sufficiente. Il ripensamento del modello di radicamento ecclesiale nel territorio e in particolare delle parrocchie esige, infatti, un confronto molto più ampio con il magistero dei vescovi. Che qui coglieremo a partire da alcuni stimoli presenti nella riflessione di vescovi postconciliari, operanti in quella porzione di Chiesa che è la Diocesi di Milano.
Gli ultimi vescovi milanesi hanno intuito, infatti, l’esigenza di un ripensamento delle parrocchie, sia dal punto di vista della loro relazione e interconnessione (facciamo riferimento al lavoro, prima sulle unità pastorali, poi sulle comunità pastorali), sia dal punto di vista della loro realtà interna. Il cardinale Martini, particolarmente attento al tema della città, ricorda per esempio in Alzati, va’ a Ninive, la grande città:

si tratta di far vedere anche oggi – in una civiltà profondamente mutata dalla tecnica, segnata dal benessere, percorsa da conflitti e confusa dal moltiplicarsi dei messaggi – che è possibile costruire comunità cristiane che siano nel nostro tempo testimoni di pace, di gioia evangelica, di fiducia nel Regno di Dio che viene, comunità missionarie che sappiano operare per attrazione, per proclamazione, per convocazione, per irradiazione, per lievitazione, per contagio. Una sfida grande, esaltante, che richiede la dedizione totale delle nostre energie, del nostro cuore….

Nella sua lettera pastorale Ripartiamo da Dio, scritta al termine del quarantasettesimo Sinodo diocesano (che ha nella presentazione uno degli scritti più significativi di Martini sul volto della Chiesa), il Cardinale si fa portatore di una provocazione importante per il tema che abbiamo in esame, quella della Comunità alternativa . Nelle pagine centrali di Ripartiamo da Dio egli afferma:

Il messaggio del primato di Dio e della Sua grazia potrebbe risuonare etereo, evanescente […]. C’è (tuttavia) il rischio che lo sia per noi, se lo proporremo solo a parole o come singoli […]. La forza e la concretezza del messaggio passano attraverso la credibilità con cui lo proporremo come Chiesa, come corpo di Cristo presente nella storia […]. Si tratta di rendere visibile e in qualche modo percepibile il fatto che esiste in questo mondo un’esperienza di comunione possibile sotto il primato di Dio. Quale l’ideale di comunità che ne risulta? (Una) ‘comunità alternativa’, a partire dall’esperienza della Chiesa degli Apostoli. La testimonianza della possibilità e concretezza di una comunità alternativa nella storia sotto il primato di Dio non è cosa facile… una simile comunità rappresenta nella storia in qualche modo una ‘utopia’ da ricercare sempre con coraggio rinnovato, ma anche una iniziale realizzazione di fraternità che potremmo cogliere tanto più quanto più ci faremo piccoli, semplici, tenendo aperti gli occhi del cuore e cercando di valorizzare ogni più modesta attuazione di amore evangelico. Ma come intenderla in concreto una tale comunità? Non è facile dirlo. Il concetto di ‘comunità alternativa’ si presta anche a fraintendimenti. Ma ha un valore provocatorio e stimolante: ci aiuta a capire il disegno di Dio di «radunare i dispersi» (cfr. Gv 11,52).

Pur sottolineando l’aspetto di stimolo e provocazione che l’idea di Comunità alternativa porta con sé, Martini cerca di precisarne i contorni:

Come si può dunque definire una ‘comunità alternativa’? È una rete di relazioni fondate sul Vangelo, che si colloca in una società frammentata, dalle relazioni deboli, fiacche, prevalentemente funzionali, spesso conflittuali. In tale quadro di società la comunità alternativa è la «città sul monte», è il «sale della terra», è la «lucerna sul lucerniere», è «luce del mondo» (cfr. Mt 5,13-16)… Una comunità alternativa nel senso del Vangelo non è dunque una setta, né un gruppo autoreferenziale che si distacca orgogliosamente dal tessuto sociale comune […]. Ma nell’insieme ha caratteri di visibilità e in ogni caso, visibile o meno, agisce sempre come il lievito, le cui particelle operano in misterioso collegamento fra loro e si sostengono a vicenda per far fermentare la pasta. Nel Nuovo Testamento ci sono offerti diversi modelli di comunità alternative: quello della chiesa di Gerusalemme, descritto in At 2-5, quello vigente nelle comunità di Antiochia o Filippi o Efeso o Corinto.

Su questa stessa lunghezza d’onda pare collocarsi una seconda riflessione e provocazione, questa volta offertaci dal cardinale Tettamanzi, nello scritto intitolato La chiesa di Antiochia ‘regola pastorale’ della Chiesa di Milano, e anch’esso posto al termine di un Sinodo, quello del clero diocesano. Tale riflessione appare, con tutta evidenza, collegata a quella del Card. Martini alla quale abbiamo fatto riferimento.
Dice infatti il Card. Tettamanzi:

In occasione dell’assemblea sinodale del clero […] ho riletto con grande conforto e stimolo la lettera di presentazione alla diocesi introduttiva al libro sinodale […] indicava come icona al a chiesa ambrosiana uscita dal Sinodo, la «Chiesa degli apostoli» […] Ora […] mi sono convinto che quell’icona deve essere riportata di nuovo alla nostra chiesa, ma forse precisandola maggiormente con riferimento alla Chiesa di Antiochia […] (che) ci si presenta come una chiesa giovane, viva, missionaria […] icona in cui specchiarsi e fare riferimento come ‘regola pastorale’ per un fiducioso e coraggioso rinnovamento comunionale e missionario.

Il Card. Tettamanzi prosegue nella sua riflessione facendo riferimento sia all’origine della comunità di Antiochia, nata dalla «testimonianza di semplici cristiani che oggi chiameremmo fedeli laici», sia alla sua apertura missionaria e verso i «lontani». Da essa trae anche spunto per una nuova comprensione del ruolo del presbitero, paragonato a Barnaba e per una considerazione sul modello di Chiesa verso il quale spingersi. Una Chiesa che sotto l’azione dello Spirito appare molto meno appesantita da strutture, tradizioni e mediazioni, come Gerusalemme, e molto più aperta non solo a una logica missionaria ma pure alla carità e alla comunione17.
Nella linea di un richiamo sia al Sinodo quarantasettesimo che alla comunità apostolica di Gerusalemme pare, infine, indirizzare anche la riflessione iniziale del Card. Scola, che in Alla scoperta del Dio vicino si colloca: «nel solco tracciato dal 47° Sinodo Diocesano», ricordando che: «non possiamo prescindere dalla descrizione della comunità contenuta nel libro degli Atti degli Apostoli». Per questo, nelle pagine della lettera, analizza i quattro pilastri fondamentali della comunità stessa.
Emergono qui i quattro pilastri portanti di ogni comunità cristiana. Per descriverli seguiamo passo passo il testo degli Atti:

  1. «Erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli…» per educarsi al «pensiero di Cristo» (cfr. 1Cor 2,16) […].
  2. «… e nella comunione…»: il secondo fattore costitutivo della vita della comunità è la tensione a condividere con tutti i fratelli la propria esistenza perché abbiamo in comune Cristo stesso […]. La vita ci è donata per essere offerta in vista del bene della Chiesa e del mondo intero: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10,8).
  3. «[…] nello spezzare il pane e nelle preghiere […]»: la memoria eucaristica di Gesù è la sorgente inesauribile della vita della comunità (cfr. Sacrosanctum Concilium 7 e 10).
  4. «… il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati». Nell’azione missionaria della comunità di Gerusalemme è all’opera lo Spirito del Risorto attraverso la parola degli Apostoli e i segni che essi compiono, il martirio che subiscono, la carità che i fratelli praticano. La missione della Chiesa, lo ripeto, non è l’accanimento del proselitismo, ma una testimonianza che lascia trasparire l’attrattiva di Gesù, è lo struggimento perché tutti siano salvati.

La riflessione dei vescovi milanesi, pur con accenti diversi, sembra però avere una sorta di filo rosso che pone alla base di un possibile rinnovamento dell’esperienza comunitaria di Chiesa, non un riferimento generico a un modello ecclesiologico più o meno ‘liquido o solido’, ma il modello della Chiesa apostolica. Di essa si coglie, però, in particolare in Martini la portata ‘alternativa’, rispetto alla realtà attuale delle parrocchie, mentre Tettamanzi pare sottolineare la differenza di Antiochia rispetto a Gerusalemme. Volendo, con ciò, esprimere l’esigenza che nasca (anche) un modello differente di comunità cristiana, più aperto alla missione, alla carità, alla fraternità; con un ruolo laicale più esplicito e una differente presenza presbiterale, un modello meno strutturato e più carismatico. Scola ne richiama, invece, i pilastri fondamentali.

Ragionare sull’esperienza: la «comunità alternativa»

Una delle principali ricchezze dell’articolo con cui stiamo dialogando è certamente quella di ragionare sull’esperienza. Non è possibile, infatti, giungere a una nuova modalità di prossimità della Chiesa con la vita della gente, in un territorio particolare come quello della città (ma il discorso vale per ogni ambito territoriale), senza passare attraverso una seria considerazione dell’esperienza. In questa prospettiva ho più volte riflettuto su quale fosse (e se ci fosse) un riferimento concreto, oltre che biblico e ideale, cui il Card. Martini faceva riferimento parlando, come abbiamo visto, della Chiesa come «comunità alternativa». Certamente, nella sua storia, egli ebbe la possibilità di accostare molte esperienze ‘alternative’ di Chiesa e in modo più diretto partecipò alla nascita in Italia del Rinnovamento nello Spirito, conobbe la Comunità di S. Egidio, la tedesca Katholische Integrierte Gemeinde. Così come visse per anni uno strettissimo rapporto con
alcune figure di Gesuiti profondamente coinvolti in quell’esperienza particolare di vita comunitaria, nata nel post concilio, che prende nome dal luogo dov’è collocata: la comunità di Villapizzone. Il suo strettissimo legame con alcuni dei fondatori di quell’esperienza, penso in particolare a p. T. Beck e a p. S. Fausti, che furono per anni i suoi padri spirituali19, la familiarità con cui visse con loro molti momenti di vita, dice la profonda conoscenza e l’apprezzamento che il Cardinale Martini ebbe di tale realtà. In ogni caso, questa comunità, nata come esperienza d’incontro tra un gruppo di Gesuiti che nel post concilio desiderava vivere la vita religiosa in modo nuovo, e alcune famiglie di laici caratterizzati dall’avere, tra i primi, fatto esperienza di missione laicale in Africa (penso in particolare alle famiglie Volpi e Nicolai), presenta un modello singolare di vita comune ed ecclesiale. Collocata in un territorio di periferia cittadina, dove vive un’esperienza di forte radicamento, la comunità di Villapizzone è da circa quarant’anni punto di riferimento per persone in difficoltà o in ricerca. La caratteristica principale di tale comunità alternativa è quella di cercare, anzitutto, nella vita fraterna il cuore del Vangelo.
Così riporta la prima carta di comunione di vita della comunità:

La Comunità di Villapizzone è composta da famiglie e da un gruppo di Gesuiti che vivono un’esperienza comunitaria, ispirandosi ai criteri […] di: «piena fiducia e disponibilità reciproca, sobrietà e condivisione nell’uso di beni e risorse, apertura anche verso l’esterno non solo nell’accoglienza ma anche nel favorire forme e momenti di socializzazione».

Da parte delle famiglie l’esigenza di vivere le dimensioni della ‘famiglia aperta’ – intessendo la dinamica interna di ciascuna famiglia con quella di altre e accogliendo anche figli altrui e persone in ricerca – e da parte dei Gesuiti la spinta a vivere la vita religiosa attraverso una testimonianza non solo personale ma anche in quanto ‘comunità’.

Alla base di questa esperienza comunitaria si può scorgere come motivazione esplicita o come ricerca profonda, la scelta evangelica per il Regno di Dio, nei confronti del quale tutto il resto passa in secondo piano o addirittura perde valore.[…]
La vita comunitaria è un tesoro proprio per questo ‘miracolo’ di conversione da una visione egocentrica e privatistica della vita – quella dell’uomo mondano e peccatore – a una scelta di condivisione, solidarietà e dono estesa a tutti i livelli dell’esistenza. È quel miracolo d’interiore trasformazione, lenta e spesso lacerante: ma proprio in questa spogliazione si ritrova la dimensione più vera e confortante della vita […] In questa esperienza di ‘perdersi’ ciascuno ritrova il ‘suo’ spazio e il ‘suo’ modo nella vita comune, pazientemente e con soddisfazione.

Nell’esperienza di Villapizzone sono presenti alcuni aspetti che richiamano la vita apostolica delle prime comunità cristiane: come la condivisione dei beni, attuata mediante la cassa comune o la predicazione del Vangelo (non a caso, infatti, principalmente qui p. S. Fausti ha svolto il suo ministero di annuncio). La vita comune tra famiglie, pur nel rispetto di ogni nucleo familiare, dice la grande rilevanza che il laicato e la famiglia hanno in questo tipo di comunità. O ancora, la disponibilità all’accoglienza dei poveri e alla condivisione di vita con essi, si coniuga con la ricerca della comunione tra differenti stati di vita (religioso, laicale e sacerdotale). Tutti questi elementi fanno dell’esperienza di Villapizzone un luogo di confronto e verifica utile anche per la Chiesa. Nuovi modi di essere comunità penso debbano
nascere dal confronto con questo o altri modelli, dove scorgere aspetti da sperimentare o integrare nelle parrocchie. Uno stile di inabitazione ecclesiale della città più vicino a questa forma, non solo sarebbe una memoria più viva della Chiesa apostolica, ma potrebbe anche raggiungere territori della città più difficili o resistenti a forme classiche di parrocchia.

La provocazione di Antiochia

Anche la forte provocazione del Cardinale Tettamanzi, relativa alla Chiesa di Antiochia, non pare essere stata ancora adeguatamente assunta dalle esperienze ecclesiali attuali. Pur annunciandosi come nuova «regola Pastorale» per la Chiesa ambrosiana (e non è chi non veda, in questo, la forza provocatoria dell’indicazione magisteriale), il testo rimane, per quanto possa cogliere io, lettera morta. Va detto che forse questa nuova icona è apparsa e appare ancora oggi un po’ irrealistica. È veramente pensabile la trasformazione di una Chiesa così fortemente strutturata come quella ambrosiana, e con una millenaria tradizione, in una Chiesa che si conformi al modello Antiocheno? Non si rischia, forzando troppo la mano al cambiamento, di generare reazioni opposte? Pur considerando tali interrogativi, rimane però il forte richiamo di questo stimolo dato dal magistero del Card. Tettamanzi. Esso proprio perché prosegue il filo della riflessione martiniana ed è ripreso, per quanto riguarda la comunità degli Atti, anche dal Card. Scola, risulta particolarmente significativo. Permane dunque un invito pressante non solo a ripensare la Chiesa di Milano in modo più conforme a quella delle origini, ma anche a considerare la possibilità di tipologie parrocchiali differenti. In conformità alla pluralità presente negli Atti, tra Gerusalemme, Antiochia, Filippi… si potrebbero, infatti, pensare a differenti stili e forme di comunità correlate tra loro, specialmente in parti della città sempre più complesse e differenziate. Si pensi, per esempio, a territori dove la densità della presenza straniera e musulmana giunge a mutare totalmente il tessuto sociale o dove la concentrazione di case popolari chiede, e ormai forse esige, un approccio alla carità, ma anche alla liturgia e alla catechesi differente. Per non parlare dei luoghi della città a cui le Citykirchen sembrano più significativamente afferire, cioè quelli della City o del Centro cittadino. Anche in questo caso la pluralità tipologica correlabile al riferimento neo testamentale di Gerusalemme, Antiochia e Filippi, pare un’idea sulla quale lavorare. Tale esigenza emerge già, infatti, in alcune esperienze di pastorale d’insieme presenti nella periferia di Milano. Questo spunto tratto dalla Carta di Comunione e Missione, dell’Unità Pastorale Forlanini mi pare, a tal proposito, particolarmente significativo:

Raccogliendo il suggerimento del Cardinale Tettamanzi, abbiamo voluto trarre dalla contemplazione dell’icona di Antiochia (At 11,19-30) e dalla riflessione sulla chiesa di Filippi (At 16,11-40), alcuni spunti utili alla comprensione del volto di Chiesa verso cui vogliamo camminare, e lo stile missionario che intendiamo attuare […].
La lettura attenta del testo ispirativo di Antiochia ci ha fatto cogliere un aspetto che ci pare importante. La presenza, nella Chiesa delle origini, di due differenti tipi di Comunità cristiane, l’una riferita a Gerusalemme nella quale è evidente uno stile più classico ed istituzionale, e l’altra ad Antiochia, ove prevale un’impostazione più aperta e carismatica, che accentua la missione, la carità e l’accoglienza delle differenze. La nostra Unità Pastorale opera già da alcuni anni nella direzione di una differenziazione di stili parrocchiali che, pur nella profonda sintonia e comunione di progetto, possono renderci più capaci di intercettare un mondo come quello del nostro territorio, dove la differenza e frammentarietà regna sovrana. Riteniamo che tale sviluppo vada ulteriormente favorito.

Relativamente, poi, alla Chiesa di Filippi si afferma:

Ci è parso di cogliere, nella missione di Filippi, alcuni elementi importanti anche nel presente. Intuiamo nell’azione di Paolo e dei suoi compagni una lettura attenta del territorio e la capacità di cogliere in esso gruppi di credenti già operanti. Questo ci stimola a scoprire nelle nostre comunità persone o gruppi con una fede adulta, cui dedicare una particolare attenzione, perché siano a loro volta dei moltiplicatori e diffusori del messaggio evangelico.
Grande attenzione andrà data anche a gruppi umani vicini all’esperienza credente e ai nostri valori essenziali, che sul territorio possano essere interlocutori della nostra azione.
Tale attenzione però, non può dimenticare coloro che si accostano alla Chiesa mediante la sola frequenza all’assemblea eucaristica […] è essenziale la cura della celebrazione domenicale, che permetta di sprigionare tutta la forza evangelizzatrice della Parola e dei riti […] serve un senso profondo di accoglienza e la capacità di farsi carico del punto di partenza degli interlocutori con intelligenza.

Parrocchie liquide?

Il tentativo di porre, all’interno di una medesima unità o comunità pastorale, parrocchie con tipologie e modalità di presenza differenti mi pare da perseguire e proseguire, seppure con gradualità e con una profonda intelligenza pastorale. Per non correre il rischio anch’esso vissuto in qualche unità pastorale, cioè di specializzare a tal punto le parrocchie da deformarne la natura stessa. Per esempio concentrando in una sola di esse la carità e gli anziani e togliendo quindi la catechesi dei ragazzi e ogni proposta per le famiglie. Si ottiene, dopo alcuni anni, come conseguenza deteriore, l’avere una parrocchia solo di anziani, con celebrazioni domenicali svuotate, con poche famiglie e bambini; e anche con un aumento di poveri ai quali non si riesce più a rispondere, a causa dello scarso numero di operatori pastorali o volontari. Concentrare, poi, tutti i ragazzi ed i giovani in una sola parrocchia, specializzandola per questo, può sembrare all’inizio fecondo, dato il grande numero di presenze, questo però non solo depaupera le restanti comunità, ma nel contempo massifica le relazioni educative.
Con la conseguenza di ridurre la capacità di offrire una proposta più personalizzata e di non permettere un vissuto comunitario dove la relazione, con gli operatori pastorali o tra i membri, risulti centrale e significativa, abbia tempi adeguati e coltivi cammini profondi di crescita spirituale e personale. Anche per quanto concerne le Citykirchen, è indubitabile la positività di alcune esperienze che hanno elementi di specializzazione, senza dover inseguire tutte le attività di una parrocchia, soprattutto nei contesti dove questa modalità di Chiesa si dà senza forzature. Penso per esempio alla potenzialità pastorale delle cappelle universitarie, che si rivolgono a un gruppo molto specifico di soggetti, in un periodo particolare della loro vita. Il potenziamento di queste realtà non può che essere auspicabile. Così pure paiono molto significative altre esperienze, come ad esempio quella della Chiesa di S. Raffaele a Milano, dedicata all’adorazione ma anche luogo in cui vivere la lectio divina o la liturgia delle ore e si dove si può trovare accompagnamento personale per la direzione spirituale. Il suo essere collocata in un luogo centralissimo della città ed essere aperta nel momento del pranzo dei lavoratori, permette di intercettare molti soggetti che trovano lì un’occasione di preghiera o di crescita spirituale.
Altre realtà presenti in Centro Milano e attente, come S. Fedele o S. Carlo, ad aspetti più culturali, svolgono anch’esse un compito significativo nell’incontrare persone che a volte sono distanti dai circuiti più ordinari delle parrocchie. Ma si può trarre da queste esperienze o da altre citate dal nostro autore una conseguenza così significativa da farle assurgere a modello per le parrocchie in genere? A me pare che questo sia eccessivo. Mi pare che il rischio denunciato dal nostro autore e da P. Ward, che «le vecchie parrocchie solide» diventino sempre più «parrocchie club», possa ampliarsi e non ridursi se si estende il modello delle Citykirchen a ogni realtà parrocchiale. Parrocchie che tendano a sopprimere la differenza di censo, di cultura, di razza… o ad aggregare solo per un interesse specifico o una condizione esistenziale particolare, si risolverebbero presto proprio in ‘nuove parrocchie club’. In tal senso il richiamo del primo capitolo di Lumen Gentium, con il suo riferimento trinitario così esplicito e del secondo capitolo relativo al popolo di Dio, evidenziano che l’elemento della differenza, dell’alterità, dell’unità tra diversi e della comunione nella molteplicità, non può essere ridotto ed eccessivamente sottovalutato, in ogni frammento di Chiesa
che intenda realmente esprimerne la totalità del suo Mistero: ciò che ogni parrocchia è chiamata, in qualche modo, a realizzare. Più che parrocchie liquide, le esperienze alle quali A. Join-Lambert fa riferimento,
mi pare debbano essere considerate realtà diffuse di Chiesa, che poste adeguatamente in rete con un tipo nuovo e più dinamico di parrocchia, possono arricchirne la potenzialità e la rilevanza missionaria, rendendola capace di intercettare aspetti significativi di un territorio.

A proposito di alcune immagini di Chiesa

La parte finale dell’articolo si sviluppa in riferimento a tre immagini di Chiesa e una riflessione sull’autorità, perdendo, forse, un po’ di chiarezza. Infatti, se un approccio al Mistero della Chiesa mediante
immagini ha un ricco fondamento evangelico e patristico ed è stato riproposto anche dal Concilio Vaticano secondo25, esso va, forse, attuato con un po’ più di precisione. L’immagine della barca, che è la prima a essere scelta dal nostro autore, per riproporre una sorta di dialettica tra solidità/liquidità della Chiesa, esprime, a mio parere, una giusta esigenza, ma forse non recepisce fino in fondo la portata dell’immagine
stessa. La barca, infatti, ha la sua caratteristica principale proprio nel navigare sopra ciò che è liquido, anziché adattarsi alla liquidità come tale. L’immagine della Chiesa come barca, quindi, e ancor più come nuova Arca di Noè, parrebbe contraddire più che sostenere questo processo di ‘liquefazione ecclesiale’ proposto dal nostro autore.

Molto più significativa, invece, l’immagine della rete. Attraverso di essa il nostro autore segnala una pista di riflessione che mi pare più feconda. Dice infatti: la nozione di rete […] implica farsi carico in modo nuovo dell’antica missione della parrocchia-solida e assumere in un modo indifferenziato i componenti del ‘tutto’ e del ‘in un luogo’. Le parrocchie-solide sarebbero ormai solo componenti di parrocchie-liquide.

Esse potrebbero articolarsi secondo tre dimensioni nelle quali si esprimerebbe: da un lato, la stabilità dell’accompagnamento delle persone nel corso dell’intera vita e insieme la stabilità di luoghi in cui si celebra regolarmente l’eucaristia ecc.; dall’altro il dispiegarsi dei carismi e della creatività di Chiesa che si spinge verso l’altro, le periferie, coloro che non vengono intercettati dalle parrocchie solide e dall’ordinarietà della vita di Chiesa; infine l’attenzione alla dimensione ‘mistica’ della vita cristiana.
Questa seconda immagine mi pare particolarmente feconda. La rete è, infatti, composta da nodi che debbono mantenere la propria consistenza e non essere eccessivamente assottigliati o indeboliti, ma si compone anche di fili che legano i nodi e non vanno resi troppo fragili, per non determinare la consunzione della rete stessa e un suo indebolimento che porti a fratture.
Attraverso quest’immagine si può, già fin d’ora, pensare la Chiesa come insieme di Nodi (Parrocchie con tipologie differenti) e legami (pastorale d’insieme) che abbiano forme diverse e azioni condivise, per rispondere a esigenze differenti in differenti territori.
Questa rete, che nelle mani di Pietro non si ruppe, pur contenendo 153 grossi pesci (Gv 21,11), è un’immagine che ancora può dare molto alla Chiesa e, forse, coniugata con la pluralità tipologica espressa dalle comunità degli Atti, può trovare nuova forma di attuazione anche oggi. La ‘comunione di comunità’ fra differenti modalità di inabitazione ecclesiale del territorio può, infine, esprimere quello stesso profondo legame tra Gerusalemme e Antiochia che ben conosciamo dagli Atti degli Apostoli, ma che deve dispiegarsi, oggi, come ‘memoria creativa di Chiesa’ aperta a una società differente e liquida.

Capacità di lavoro comune e figure d’autorità

L’immagine della rete può aiutare, infine, a entrare anche nell’ultimo aspetto di questa riflessione che il nostro autore concentra sul tema dell’autorità e delle figure di comando presenti in questo nuovo modello di Chiesa. Prima di porsi il problema del governo si dovrebbe, però a mio parere, affrontare la questione di come generare, negli operatori pastorali, una vera capacità di lavoro comunionale. Bisogna, infatti, uscire dall’illusione di credere che l’apprendimento del lavoro d’insieme dipenda semplicemente dalla buona volontà dei singoli. Sia i preti, che sono stati formati a giocare una leadership piena nei confronti della loro comunità, sia i laici, sono ora chiamati a una riconversione funzionale delle loro capacità operative. I preti, poi, sono spinti oggi a una ridefinizione in senso fraterno della propria azione pastorale, dopo essere
stati educati quasi a vedere con un certo sospetto la fraternità (per non diventare come i religiosi). Essi, perciò, fanno spesso fatica a cambiare e alcuni divengono addirittura refrattari a un’azione più condivisa. La capacità di lavorare insieme, certamente una delle esigenze più consistenti della Chiesa futura, nasce, però, oltre che da una crescita spirituale e interiore, anche dall’apprendimento.
Si pensi, a tal proposito, quanto è grande l’impegno profuso dalle Scuole per educatori nell’insegnare il lavoro di rete o la grande fatica fatta da aziende o da società multinazionali nel costituire gruppi per il lavoro d’insieme tra i propri dirigenti e dipendenti. Ritengo che l’apprendimento e il miglioramento di un lavoro pastorale comune dipenda, anzitutto, da uno sviluppo del senso comunionale nella vita spirituale delle componenti la Chiesa, ma anche dall’insegnare ai sacerdoti e agli altri operatori pastorali il lavoro di rete, così come la gestione di una leadership più condivisa.
Crescere nella consapevolezza che la propria comunità è arricchita dalla presenza di altre realtà, poste in rete con la propria, è un processo lento di maturazione ma che potrebbe aiutare a renderci più pronti a una missione comune. Da questo sviluppo certo nascerà, anche, una nuova e conseguente definizione dell’autorità, nella riproposizione creativa di una traditio.

Don Augusto Bonora

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